Un commento o una presa di posizione potevano costare caro sotto il regime fascista. La triste storia di Mario Tentoni il cui destino fece i conti con il “Decreto del Duce”.
Nel corso della Seconda Guerra Mondiale (1940 – 1945) ci sono stati momenti, fatti e avvenimenti che possono essere non ben conosciuti e il giudizio su di loro può essere parziale o manchevole di verità. Voglio quindi dire alcune cose sulla vicenda che ha funestato la vita del giovane che per un breve periodo fu inquadrato nell’esercito della Repubblica Sociale, i cosiddetti “repubblichini”.
Un caso emblematico ma non unico che ha travagliato quel periodo della nostra esistenza di uomini e della vita della comunità civile. Mario Tentoni, meglio conosciuto nel Paese come “Mario dla Rosa”, abitava a nolo nella casa del ciabattino Epimaco Montanari, detto “Bu- schin”, in Paese; e praticava il mestiere di barbiere a “bottega”.
L’EPISODIO CHE CAMBIO’ LA VITA DI MARIO DLA ROSA
Un giorno ebbe la curiosità di fermarsi a leggere un manifesto, che Aldo, l’attacchino comunale, stava affiggendo. Il manifesto riportava la notizia della uccisione, per mano partigiana, di un gerarca fascista della provincia.
Il giovane Mario, commentando con Epimaco (che spingendo la carrozzina di invalido si era avvicinato per leggere il manifesto) si lasciò andare incautamente a commentare la notizia, dicendo in dialetto: “Enca quest l’ha batù al znoce”, come dire: anche questo é caduto in ginocchio, l’hanno ammazzato. L’attacchino Aldo, notoriamente legato al fascio locale, si voltò e squadrò colui che aveva parlato. E la cosa sembrò finire lì.
L’anziano Epimaco, ben più esperto delle cose della vita, disse a Mario: “Vedrai che avrai delle noie”. Senza fallo, il giorno dopo Mario Tentoni, di anni 21, fu convocato nella sede del Fascio dove gli venne contestata la frase detta e puntualmente riferita.
IL DECRETO DEL DUCE NON DAVA SCAMPO
A questo punto occorre aprire una parentesi per essere soccorsi da un fondamentale provvedimento storico. “Il 18 aprile 1944, fu emanato un Decreto del Governo, che prese il nome di “Decreto del Duce”, il quale, in termini perentori ed ultimativi, invitava diserto- ri, sbandati, renitenti, ribelli e partigiani, a presentarsi ai Comandi militari entro il termine ultimo del 25 maggio 1944, per poter godere di un atto di clemenza e salvarsi dalla pena di morte, la quale automaticamente veniva commutata, senza processo, in una condanna da 1O a 24 anni di prigione.
E in più: qualora però coloro che si presentano facciano domanda di entrare in reparti operanti, anche questa seconda condanna verrà sospesa. Cioè, in pratica tutto si poteva rimediare se si chiedeva di entrare a far parte dei reparti delle “brigate nere” impiegati nei rastrellamenti e nella azioni di guerra contro i partigiani.
IL DRAMMA DI MARIO TENTONI
I dirigenti del Fascio, avvalendosi del “Decreto del Duce”, posero Mario di fronte all’alternativa di essere sottoposto a processo col codice della leggi di guerra o di collaborare entrando nei reparti operanti della G.N.R. (Guardia Nazionale Repubblicana).
Mario, dei due mali scelse quello che gli pareva il minore. Cosi, fu inquadrato nei reparti ed inviato sulle montagne di Cagli, nelle Marche, per effettuare azioni di guerra contro i partigiani, operanti in quella zona. Da una di quelle spedizioni, Mario non é più tornato: non si ebbero più sue notizie, ed il suo corpo mai più fu ritrovato.
Nel libro della storia, forse per comodità di classificazione, ogni evento viene incasellato nei grandi schemi e ogni singolo fatto segue la sorte buona o cattiva, giusta o ingiusta che sia- della “casella” in cui é stato burocraticamente inserito. Nella realtà delle cose non sempre tale modalità rende giustizia ai singoli casi: non dà il giusto giudizio cui ogni persona ha diritto. Il giovane Mario tentoni, “e fiul dla Rosa”, in quale casella deve essere inserito? Nella casella degli antifascisti? Oppure, nella casella dei brigatisti della Repubblica sociale? O non nella casella delle vittime?
Una casella, quest’ultima, che deve essere pur considerata per rendere meno perentorie le sentenze morali e meno sommarie le classificazioni che con ogni probabilità (e con grave ingiustizia) in non poche casi si é fatto ricorso.
Dante Tosi