Sergio Mazza, dipendente comunale con una passione per Riccione senza confini, per questo presente in ogni angolo della città per controllare le manutenzioni e i cantieri.
Forse non tutti sapevano che Sergio Mazza aveva il dono dell’ubiquità. Dipendente comunale, nel suo corposo mansionario risultavano: Addetto al controllo della Viabilità
cittadina, manutenzione stradale, Illuminazione pubblica, segnaletica orizzontale e verticale, buche e disagi in generale delle strade centrali e periferiche (e tanto altro).
Lo trovavi mentre sorvegliava i lavori in Viale San Martino e, cinque minuti dopo dall’altra parte della città mentre controllava la segnaletica in Viale Verdi. Occhio esperto non gli sfuggiva nulla. Con la Panda del Comune ma, preferibilmente in bicicletta, era presente in ogni angolo della Perla Verde (personaggio, a mio parere, indispensabile in ogni comunità).
La sua abnegazione al servizio gli era stata trasmessa da suo padre, Primo Mazza, Vigile Urbano, onnipresente e integerrimo (aveva multato la moglie perché in bicicletta aveva attraversato col rosso). Per tutti e due non era questione di mansionario. C’era la passione per il proprio lavoro, il rapporto con la gente, l’attenzione per tutto ciò che accadeva nella città.
Ma Sergio trovava tempo anche per dedicarsi al suo sport preferito: il ciclismo, tanto da essere eletto Presidente della Ciclistica Perla Verde. Stava sempre allo scherzo, non si offendeva mai. Ricordo che da presentatore alla sua elezione, commentai, guardando i suoi piedi piuttosto abbondanti: “Con Sergio il ciclismo a Riccione prenderà sempre più piede”. Si unì all’applauso di tutti. Erano personaggi dei quali ancora oggi, scomparsi anzitempo, ne sentiamo la mancanza e ci sembra giusto ricordarne il fervore e l’attaccamento alle mansioni cui erano delegati.
Andrea Tentoni prima che orafo è un vero e proprio artista: un amore viscerale per il suo lavoro con i suoi gioielli che diventano figli preziosi da cui spesso è difficile separarsi per il forte legame che si crea.
Grazie al nonno, da cui ha ereditato la vena artistica, Andrea matura la consapevolezza di come la donna sia regina della casa, della famiglia e della vita di un uomo, per questo da ricoprire di attenzioni e di preziosi, patrimonio affettivo più che materiale. Figlio di un medico che avrebbe voluto per lui lo stesso cammino professionale, Andrea inizia con grande determinazione come garzone ed apprendista presso i coniugi Giorgi, Alberto ed Alba gli insegnano il mestiere ma soprattutto gli trasmettono la passione e l’amore per l’attività: artista ed artigiano orafo da 43 anni, sempre in evoluzione con la stessa voglia di apprendere di quando ha iniziato.
“Trovo un’emozione, ogni giorno, per continuare la mia passione. I miei gioielli sono come dei figli, il gradimento del pubblico mi da la forza per andare avanti nonostante i tanti sacrifici e le difficoltà della mia categoria”. Andrea parla di pubblico e non di clienti, come se le sue vetrine fossero un palcoscenico dove esprimersi artisticamente, per questo ogni vendita è come una separazione, arrivando persino a commuoversi. Ci sono meraviglie della sua produzione dalle quali giura di volersi separare solo quando non ci sarà più.
Nessuno dei suoi amati nipoti ha seguito le sue orme.
“Le mie gioie rappresentano soddisfazioni interiori che, a livello fisico, sono per me come una seconda pelle, una corazza che difendo e mi difende. Nel mio negozio ho scontato diversi “ergastoli” e fatto tante rinunce, ma felice anche nella consapevolezza che non è stato tutto rose e fiori.”
Le sue vetrine, ricche ed abbondanti di manufatti preziosi, sono osservate anche da occhi tecnici provenienti da altre case orafe che catturano idee per poi prenderne spunti. Una volta si arabbiava ma la maturità lo ha portato a non farci più caso e ad esserne piuttosto onorato.
Andrea ti sei mai pentito di aver scelto di restare? “Prima no! Oggi me ne andrei, ma non lo faccio per i miei dipendenti che sono come la mia seconda famiglia. Ho una responsabilità verso loro ed è quella di non abbandonarli soprattutto in un periodo così difficile: resisto nonostanteil deserto. Prima Riccione era luogo di avanguardia, ricerca, divertimento raffinato, bella musica, negozi esclusivi. Arrivava gente stupenda, ben vestita, attenta ai particolari ed acquistava i miei gioielli a qualsiasi ora della giornata, comprese le prime ore della notte.”
Cosa è successo? “Eravamo un concentrato di tutto, poi scelte politiche sbagliate hanno dato spazio a multinazionali e monomarca ed hanno distrutto la bellezza per il particolare, per l’esclusività. Oggi quel tipo di gente cosa ci viene a fare? A me dicono che devo fare cose meno impegnative, fare marcia indietro. Io? Anche no! Piuttosto vado a fare lo spazzino, con tutto il rispetto per la categoria!”
Chi è Andrea Tentoni? “Sono una persona semplice, sicuramente eccen- trica, non do confidenza facilmente. Faccio una vita ritirata tra casa, fami- liari, in primis mia madre che adoro. Sono dispiaciuto del fatto che nessu- no dei miei nipoti segua le mie orme, ma è giusto rispettare le loro scelte. E poi ci sono i miei cento pappagalli che amo, accudendoli con amore”.
Sei legatissimo al ricordo del nonno e ami profondamente tua madre, come anche il regno femminile. Come vedi oggi la donna? “Un tempo la donna era “vetrina dell’uomo” e non per questo oggetto ma soggetto amato e riverito come mio nonno per mia nonna. Un uomo non può portare più di tanto, a parte un orologio o un braccialetto, ed è alla donna che volgeva le sue attenzioni regalandole le cose più belle. Donne differenti da quelle di oggi che pare vogliano fare dei dispetti ai loro mariti finanche rifiutando i regali che, spesso, poi finiscono alle loro amanti. Non vedo più eleganza in giro, la donna ha smesso di sognare. Veste come se andasse in palestra a qualsiasi ora della giornata e come se fosse una ragazzina anche a 60 anni. Hanno perso femminilità, le donne meravigliose che ho conosciuto, non hanno eredi”.
Andrea non hai mai fatto nulla per soldi anche se questi sono indispensabili. Crea prima di tutto per il piacere di farlo, destinando le sue gioie a chi ne coglie il valore profondo. Per questo ha messo alla porta l’arroganza e la presunzione di certi atteggiamenti, arrivando una volta anche a strappare un assegno.
Vi aggiorno sulle donazioni legate alla raccolta fondi “Riccione contro il Coronavirus”. A fine gennaio e arrivato all’Ospedale Ceccarini il secondo ventilatore polmonare che è in funzione da febbraio nel reparto di terapia intensiva mentre il primo ventilatore Draghër donato è in funzione al Ceccarini dal 10 novembre 2020.
Essendo stata per un periodo (da inizio marzo fino al 12 aprile 2021) Riccione in Zona Rossa, Famija Arciunesa ha deciso di rinviare la consegna ufficiale per non ostacolare la quotidiana attività dei medici e per non correre inutili rischi. Quello che conta è che il ventilatore polmonare sia operativo.
Per trasparenza era opportuno anticipare l’avvenuta consegna a chi ha contribuito alla raccolta fondi rendendo possibile questo grande atto di generosità collettiva. I due ventilatori polmonari sono stati importantissimi durante la seconda ondata e lo saranno ancora per le attività del nostro ospedale anche per i prossimi anni insieme a tutte le altre attrezzature mediche donate.
Abbiamo anche consegnato dieci sedie a rotellee stiamo valutando la gestione degli ultimi buoni spesa per le famiglie bisognose del territorio. “Riccione contro il Coronavirus” ci ha ricordato quanto sia grande il cuore della nostra gente, oggi abbiamo bisogno di metterci alle spalle questo drammatico periodo legato al Covid e di ritrovarci come comunità. Un grande grazie a tutti.
Sono nato al Ceccarini, ho gattonato al giardino d’infanzia Ceccarini per poi imparare a leggere e scrivere alla scuola del Paese, forse il primo bacio l’ho dato in Viale Ceccarini, di sicuro in un bar sul Viale più bello del mondo intitolato alla Boorman, ci ho visto in Tv i tre goal rifilati da Pablito al Brasile, era il 1982. Basta questo oggi per dirigere lo storico giornale “Famija Arciunesa”? Di certo no. Anche perché il peso del testimone è piuttosto impegnativo ed ingombrante. Mio babbo Marzio per un paio di anni ne ha firmato la direzione, ma misurarsi con il proprio cognome da queste parti è un classico, per me a dire il vero anche un privilegio, a cui tra l’altro sono abbastanza abituato. Il “problema” è l’altro baffo, quello di Giuseppe Lo Magro. Beppe in diciott’anni di Presidenza ha fatto mille cose con uno spirito indomito, come quando nuotava in gara prendendo a schiaffi l’acqua della sua corsia. Ma io vengo dal calcio e ho cominciato a costruire una nuova squadra, una nuova “Famija”, vogliosa, determinata e aperta alla città.
Per iniziare siamo tornati in piazza con le caldarroste della solidarietà e con i nostri libri per fare beneficenza. Abbiamo dato una veste nuova al nostro storico giornale che da 40 anni arriva nelle case dei riccionesi. L’idea è quello di renderlo più’ facile alla lettura, valorizzare le immagini senza però stravolgerne i contenuti. Quelli sono il nostro marchio di fabbrica, quanto i riccionesi da sempre apprezzano, uno strumento per sentirsi Riccione sulla pelle, un percorso che ognuno compie a modo suo. Io ho iniziato fin da bambino.
Percorrere e avventurarmi alla scoperta della città al galoppo della mia bicicletta è stata un’avventura iniziatica, colma di emozioni. Non si è cittadini perché si nasce casualmente in un luogo e neppure perché l’anagrafe ci conferisce un determinato status. E’ la città che con gli anni ci forgia, fino a diventare il telaio che tesse i fili del nostro crescere. Un libro aperto di opportunità personali e collettive, è lo spazio della libertà, dell’incontro, delle esperienze, della diversità, del riconoscimento, del ritrovarsi, della solidarietà. Il sentirsi parte di una comunità, di una Famija, è come una pianta che cresce ostinatamente anche ai margini dei marciapiedi e delle strade più trafficate, non puoi fermarla. Riccione è ‘sta roba qui.
La città però, come il giornale, bisogna sapersela inventare, immaginare, conquistare, perché è viva, perché palpita ogni giorno, perché è desiderio.
Come la Zenobia di Calvino per la quale non serve orientarsi sulla classica categoria della felicità e dell’infelicità, ma quella del desiderio.
E dove desideriamo vivere? Che giornale vogliamo? Per comprenderlo fino in fondo è bene prima di tutto capire chi siamo e da dove veniamo.
In questi 40 anni Famija Arciunesa ha fatto il suo. Racconti, libri, iniziative, eventi, foto, parole, aneddoti, usanze sono le nostre pietre, capitelli e arcate di una storia breve quanto intensa. Riccione ci piace pensarla al centro del mondo, una storia importante che abbiamo da sempre raccontato e racconteremo, aggiungendo nuovi capitoli.
E’ stato scritto tanto dei pionieri e dei “favolosi anni ’60”, a noi e ai lettori il compito di raccogliere la nuova sfida: mettere in bacheca storie, immagini e materiale dei luccicanti anni ’80 e quelli a seguire. Serve farlo insieme perché Famija Arciunesa è di tutti, di tutti coloro che anche dopo il più bel viaggio, scorgendo in autostrada la scritta “Riccione” su sfondo verde, mettono la freccia ed immancabilmente sorridono. Non è così? Già perché Riccione è casa. Per questi primi 40 anni insieme, auguri a tutta Famija Arciunesa, ai tesserati, al giornale, ai suoi inserzionisti e soprattutto agli affezionati lettori.
Il “salotto” di Riccione sulla bocca di tutti anche grazie al famosi brano del cantautore bolognese Dino Sarti, era il 1974! Perché non ricordarlo con una targa in Viale Ceccarini?
Era la metà degli anni ’80 quando nel mio ambulatorio entrò Dino Sarti. Era intimidito, timoroso, come quasi sempre accade ai pazienti che si trovano davanti un medico che non conoscono. Per me era un mito, il più importante rappresentante della musica dialettale bolognese, un cabarettista formidabile che era riuscito a sfondare in un ambiente difficile come il derby di Milano.
Dino era anche uno scrittore brillante, un arguto giornalista e un bravo attore cinematografico. Ma era riuscito in un’impresa ancora più ardua: contro il parere di tutti, appoggiato dal sindaco Zangheri, organizzare un concerto in Piazza Maggiore per Ferragosto. E riempire la piazza. Il suo commento fu: “Me a dégh che al séndick l’è dvintè màt: fèr un spetàcuel propri incû che a Bulagna a gni è inciòn!” (“Io dico che il sindaco è diventato matto, fare un concerto proprio oggi che a Bologna non c’è nessuno”). Il risultato fu clamoroso, 30.000 spettatori il primo anno, 60.000 il successivo. La gente abbandonava i luoghi di villeggiatura, Riccione in primis, per tornare a Bologna ad ascoltare Dino Sarti. E così sarebbe accaduto per molti anni a venire.
“…le canzoni di Dino Sarti, hanno il sapore del pane all’olio e rispecchiano il carattere della mia gente” (Enzo Biagi)
Divenimmo amici, anche perché ci univa un’amicizia comune: Corrado Castellari, un mio amico d’infanzia, che fu il mio primo chitarrista, poi divenne il leader nell’orchestra di Dino e scrisse la musica di quasi tutte le sue canzoni. Dino ebbe un rapporto molto affettuoso con Riccione, dove si esibì per molti anni in vari locali e a cui dedicò u na delle sue canzoni più note: “Viale Ceccarini, Riccione”.
E non deve meravigliare che la più famosa ed emblematica canzone su Riccione, l’abbia scritta un bolognese. I bolognesi, si sa, hanno sempre amato visceralmente Riccione.
Il testo della canzone, nonostante abbia quasi 50 anni, sembra scritto ieri e coglie alla perfezione lo spirito di chi ha vissuto quegli anni. “Viale Ceccarini, Riccione, più che una via è un’istituzione”.
Geniale! Peccato che Dino sia stato ingiustamente dimenticato.
L’ultima volta che lo vidi, una cena a casa mia, era un uomo solo, amareggiato e deluso. Credo che riccione dovrebbe ringraziarlo e dedicargli, sul viale che ha immortalato nella sua canzone e in cui si è esibito tante volte, almeno una targa (partecipa al sondaggio di FA).
Primo Angelini nacque nel 1892 ed abitò sempre a Riccione nel centro della sua amata città, in via Gorizia dove costruì una bella falegnameria, poi arrivò il Bar Angelini.
Primo fu pioniere tra gli albergatori e gli esercenti turistici di Riccione. Sue erano l’omonima pensione Angelini che si affacciava sul mare (ora hotel Baltic) e il Bar-Pasticceria-Gelateria Angelini con un vasto giardino in angolo ai Viali Viola dell’Insegna (ora San Martino) e Abissinia (ora Gramsci).
Vantava una clientela proveniente anche dal Centro e dal Porto per le sue specialità quali il Pinguino, la Cassata siciliana e la Sfera volante. La pensione Angelini costruita nel 1910, si allargò con una dependance nel 1928 e fu distrutta durante la Seconda Guerra mondiale. Primo seguì con passione queste attività anche se il suo cuore batteva forte solo quando era in falegnameria.
Galantuomo integerrimo non si fece scrupoli ad attingere alla sua fortuna personale quando si trattò di garantire il lavoro dei suoi operai nei momenti di crisi. Primo ci ha lasciati nel 1978.
La tradizionale Festa dell’Uva che vedeva la partecipazione di tantissimi riccionesi. Un vero e proprio evento creato anche soprattutto in chiave turistica. Nella foto è rappresentata un’immagine del 1932 – Agghindati per la tradizionale Festa dell’uva con allegria e spensieratezza. Da sinistra: Augusto Cicchetti, Maria Papini, Vittoria Cicchetti, Mario Palazzi, Peppina Sorci, Tina Muccini, Norma Calza, Santuzza Quilichini e inginocchiata Maria Cicchetti.
Le file infinite all’ingresso per l’apertura stagionale,
lo staff e i personaggi raccontati da Cinzia Garoia
Maggio era il mese in cui ci si preparava per l’apertura del Byblos, la meravigliosa villa bianca in stile mediterraneo immersa in un parco di pini e ulivi sulle colline riccionesi.
Di proprietà della famiglia Gennari, era gestita dai fratelli Jorg e Andreas, ma in sala non mancavano mai il patron Aldo seduto ad un tavolo con gli amici e la biondissima Monika, instancabile danzatrice.
Si aspettava la data d’inaugurazione con la stessa trepidazione di quella di un esame all’università, si lottava per essere tra i privilegiati ad avere l’invito e ci si rassegnava a far file chilometriche all’ingresso perchè in quella serata non si poteva mancare. Era l’evento vip che dichiarava ufficialmente iniziata l’estate e c’erano “tutti”.
Le ragazze più belle di Riccione vestite da red carpet, i DJ più acclamati del momento, i personaggi famosi dello show-biz e quell’atmosfera di festa elitaria che è rimasta impossibile da replicare. Una sera mentre mi trovavo al Makkaroni, storico locale di viale Dante progettato e creato da Giovanni Cenni, un amico mi chiese se volessi entrare a far parte di un gruppo di nuovi PR locali. In un attimo mi ritrovai catapultata dall’altra parte.
Erano gli anni ’90, golden age delle discoteche rivierasche, ma anche i più divertenti e spensierati della mia vita.
L’ebbrezza di quel nuovo ruolo, la voglia di ballare e chiacchierare ogni sera con centinaia di persone, le colazioni alle prime luci del mattino… era tutto così magico ed entusiasmante che non pesavano neppure il dolore alle caviglie dopo una nottata sui tacchi e le pochissime ore di sonno dormite. Le serate si succedevano sempre diverse tra loro, annoiarsi non era contemplato. La domenica si cenava con la musica live, il mercoledì si giocava come fossimo in un casinò, nel fine settimana tornava protagonista indiscussa l’house music e si ballava sfiniti aspettando il mitico ultimo pezzo, che tutti cantavamo a squarciagola all’alba (anche sotto la pioggia!).
In consolle, deejay resident: Massimo Lippoli, Uovo, Angelino, Sandro Russo, Andrea Frizza un giovanissimo Andrea Arcangeli e TBC. In piscina, tra piante e luci soffuse il regno di Stefano Malaisi e dei suoi tormentoni dance, scalette che quasi conoscevamo a memoria e diventavano la colonna sonora dell’estate. Poi c’erano le ballerine, creature ultraterrene dai fisici statuari che salivano sui cubi e facevano sognare chiunque le guardasse muoversi. Un’estate sbarcò un gruppo di argentine, bellezze mozzafiato che seminarono il panico tra noi comuni mortali. Era impossibile competere con l’avvenenza di queste sei ragazze immagine, loro spezzavano cuori e noi schiattavamo d’invidia.
Per fortuna nei momenti critici c’era sempre qualche amico generoso che proponeva la “scannucciata” un’enorme boule contenente litri di cocktail, che arrivava a risollevare l’umore. Non so chi abbia inventato questo aggregante modo di bere, ma so per certo che in quegli anni ha vissuto il suo momento di maggior successo. Ricordo la voce squillante di Antonella Apicella (oggi moglie di Andreas) uno schianto di mora allora Pr diventata poi regina del bar, che gridava “scannucciamo?” coinvolgendo chiunque, anche sedicenti
astemi come Giancarlo Barletta (foto a sx), che non ho mai capito se bevesse davvero o facesse finta solo per non negarsi il piacere di stare in mezzo a tante donne.
Era una consuetudine veder arrivare Fiorello insieme a Paco, grande PR sempre abbronzato ed elegante, ma anche ritrovare Jovanotti (a lato), Saturnino, Cecchetto, Bonolis, Galeazzi, Abatantuono, ElenoireCasalegno, MichelleHunziker e altri personaggi famosi del calcio e del basket come SashaDanilovic.
Indimenticabile il conte UbertiBona, cliente fedelissimo che atterrava con l’elicottero privato scortato da gorilla e ragazze favolose, ballava sui tavoli, offriva fiumi di champagne e ripartiva felice. All’entrata il massiccio WilliamCasadei, una coda di riccioli biondi, pochi sorrisi ma sempre autentici e la capacità di chiudere con un NO secco, qualsiasi tentativo di corruzione.
Al bar tra gli altri, il re del freestyle Federico Tullio, per tutti “Chicco” con le sue mirabolanti acrobazie sempre abbinate ad un sorriso impeccabile. In sala Fabrizio Rella, altro codino storico, pazzo scatenato che volava tra i tavoli con energia impareggiabile, come anche l’inesauribile Floriano Semprini.
Infine le foto di Click: chi non è andato almeno una volta nel suo negozio in viale Ceccarini a ritirare fotografie stampate? Scorbutico e tabagista incallito, ti metteva tra le mani quei libroni pieni di provini e tu passavi ore a cercare il tuo scatto, curiosando e spettegolando su chiunque ti capitasse di riconoscere.
Dopo il Byblos arrivarono Villa delle rose, Pascià, Paradiso, Sofia… dieci anni spesi ad imparare come ci si relazioni con le persone, ad accoglierle sempre con il sorriso, a ricordare nomi, ma soprattutto a costruire legami, alcuni così solidi e sinceri che nel tempo si sono trasformati in amicizie fraterne.
L’indimenticabile Ferragosto 1989
Il tema dell’estate era “veri, falsi, copie e originali”. Fu così che da un’idea di Davide Nicoló nacque questa festa pazzesca che ancora tutti osannano: Il colore dei soldi. Avete presente una pioggia di banconote come quelle che si vedono nei film?
Dall’elicottero sopra la pista venne lanciata una montagna di dollari falsi, in mezzo ai quali si nascondeva l’equivalente di 3 milioni di lire in veri “one dollar”.
Fu uno spettacolo scenografico di grandissimo impatto visivo, un delirio di stupore, caccia ai soldi e adrenalina.
I più fortunati tornarono a casa con qualche manciata di dollari, gli altri con il ricordo di una serata che solo a ripensarci fa brillare gli occhi.
Dove va il tempo? C’è un posto nell’universo dove vanno tutti i minuti vissuti? Dove sono andati i giorni dell’infanzia, dell’adolescenza, del primo amore?
A queste domande se ne sono aggiunte di nuove: dove sono andati i momenti dei baci e degli abbracci fra le persone?
Dove sono andate le sere trascorse con le amiche, le chiacchiere, le risate? E quei momenti di sogno in cui guardavamo estasiate le vetrine del centro per poi tornare alla realtà davanti ad un caffè o ad un aperitivo?
E le passeggiate al mare? E le ore del cinema e dei concerti? Poi accade che a queste domande se ne aggiungono di più recenti: dove è andato il tempo vissuto con l’unico amore della tua vita?
Dove sono tutti i minuti, le ore, i giorni, i mesi, gli anni vissuti insieme? Se qualcuno lo sa, per favore me lo dica. Voglio andare in quel luogo per riprendermi ognuno di quei momenti. La loro assenza non mi fa respirare.