A Riccione è nata la carbonara. Il babbo del celebre piatto è Renato Gualandi, chef bolognese, che si inventò la ricetta, recuperando quanto aveva di disponibile, in occasione di una cena per celebrare la liberazione a Riccione il 22 settembre del 1944.
Riccione patria della carbonara. A giurarlo è sempre stato lo chef bolognese Renato Gualandi che ha sempre sostenuto di aver preparato la ricetta in occasione di una cena di gala di liberazione dalle armate tedesche tenutasi il 22 settembre del 1944 all’hotel Vienna di Riccione.
Per celebrare la liberazione le truppe alleate anglo-americane di stanza a Riccione si ritrovarono grazie all’iniziativa del comandante delle truppe canadesi generale Eedson Burns che ospitò presso il Quartier Generale dell’Hotel Vienna ospiti illustri comeil ministro Harold MacMillan, i generali Harold Alexader e sir Oliver Leese.
LA RICETTA DELLA PRIMA CARBONARA A RICCIONE
Il menù fu seguito proprio da Gualandi che creò gli spaghetti alla carbonara utilizzando bacon cotto in un po’ di burro, crema di latte e formaggio fuso, polvere di rosso d’uovo, spaghetti spolverati da una manciata di pepe macinato a fresco. Il piatto venne poi accompagnato da pezzetti di pane con prezzemolo per gustare fino in fondo il sugo piuttosto liquido della carbonara. Un piatto che ebbe un tale successo tanto da essere replicato a Bologna, in occasione della liberazione della città felisinea, con Gualandi in cucina per il Generale polacco Anders.
RENATO GUALANDI DA BOLOGNA IN JUGOSLAVIA E POI A RICCIONE
L’esordio di Gualandi è nella cucina di una rosticceria poi scoppia la Seconda guerra mondiale e per Gualandi comincia tutta un’altra storia. Nel ’39 – come raccontò alla Piazza– parte per la guerra. L’armistizio dell’estate del ’43 lo soprende ai confini della Jugoslavia. Insieme ad altri 4 compagni scappa. Tre vengono uccisi dai partigiani titini. Insieme al riccionese Bruno Polverelli raggiunge Ferrara. Impossibilitato a far ritorno a Bologna, con Polverelli, via Ravenna, in treno giunge a Rimini. A Misano lo aspettava Lucia Berardi, la morosa conosciuta a metà anni trenta.
Lavora per conto dei tedeschi al rafforzamento della Linea Gotica e poi diventa, arrivati gli Alleati diventa segretario del primo sindaco di Misano designato dal CLN. Gualandi ci ha lasciato nel 2016 all’età di 95 anni.
Fred Buscaglione era di casa a Riccione, protagonista anche di una Rosa d’Inverno, quella del 1956, la prima al Grand Hotel. Ma era soprattutto d’estate che il Re dello Swing si esibiva nei locali di Riccione ma soprattutto all’Embassy di Rimini. Nella foto scattata al bar-pizzeria Mocambo di Riccione in Viale Dante, Fred Buscaglione è in primo piano con alla sua destra il diciottenne Adelio Cecchini.
Riccione 1930, quando si andava al mare con il calesse e ci si arrangiava con un telo per ripararsi dal sole.
Era il 1930 e qualche domenica d’estate si andava con entusiasmo al mare, prove- nendo anche dall’entroterra riccionese. In fondo a viale San Martino, dopo aver ol- trepassato l’ippodromo dei cavalli (ingàr), c’era una casa di contadini circondata da una grande aia che confinava con la spiaggia, e una siepe di tamarici da lei la divideva. Si lasciava il cavallo col calesse parcheggiato lì e si andava verso il mare con un lenzuolo, una coperta di tela, l’ombrello, abbigliati da castigati costumi a righe bianche e blu, mutandoni o sottoveste.
Si improvvisavano delle tende per riparasi dal sole, innalzate con la coperta e qualche palo di legno, e con il lenzuolo ci si asciugava dopo un rinfrescante tuffo in acqua. Verso sera si smontava tutto, si pagavano 10 soldi al contadino per il posteggio e si ritornava felici a casa.
Na volta la gènta ch’l’amniva me mèr lan si ciamèva “ I turésta”…i era “ I S-gnur”. Na masa ad quist S-gnur i era nobil, se su bèl sangue blò. Un bèl esemplèr l’era una Cuntésa ad Bulègna, ch’lan s’era mai spusè.
La eva una vilèta tl’Abisinia, s’un giardèin isé radanèd che e fèva voja, si su buschét ad ligòstre, al stradèine ad lapél biènch e, in fènd, ui era la stala. Perchè la Cuntésa la eva una cavala biènca per trì e su bèl calisèin maruncin sempre lòcid come l’or.
A guvernè cavala, calisèin, giardèin e tòt e rèst ui era “Spranghin” che in realtà us ciamèva Utèvie, mo dato che d’inverne e cumdèva padèle, piat, còc e umbrèle, us strasniva drì che soranom.
La cuntésa la era una muliga spirlimpèina e e capitèva spès cla partés ad scaranèda per i su incontre misterios. Isé Spranghin e tachèva la cavala e mitiva sò al valise e la caplira e e cumpagnèva la Cuntésa ma la stazioun.
Ilè e pasèva i bagaj me fachin, po’ l’ascultèva al solite rach-mandazioun per l’andamènt dla chèsa. Apèina us santiva e fés-ce de treno in ariv la Cuntésa la slunghèva, tal mène pìne ad cal ad Spranghin, la mència. Lò e sbarlucèva senza fès véda, us tuleva e brèt da la testa e e giva: “Bon viag s-gnora Cuntèsa, bon viag finènta a Bulègna”.
E la Cuntèsa la partiva cuntènta.
Un bèl dé, dèp la solita manfrèina, Spranghin e saluta la Cuntèsa isé: “Bon viag sgnora Cuntèsa, bon viag finènta a Furlé”. Al chè la Cuntèsa, arsantida, la dmanda spiegazioun e e brèv om l’arspènd:
“ Sgnora Cuntèsa, ad solit am dè dis sèld al mència per andè a Bulègna…og am avì dè cinq sèld…finènta a Furlé e basta e l’arvènza”. Po’ us’è sistemè e brèt tla testa, l’ha prilì sora i tach e l’è rtorne ma chèsa.
Lorenzo Galavotti
LA CONTESSA DI BOLOGNA
Una volta la gente che veniva al mare non si chiamava “I turisti”…erano “I Signori”. Molti di questi Signori erano nobili, col loro bel sangue blù. Un bel esemplare era una Contessa di Bologna, che non si era mai sposata.
Possedeva una villetta all’Abissinia, con un giardino così ordinato che faceva voglia, con le sue siepi di ligustro, le stradine di sassolini bianchi e, in fondo, c’era la stalla. Perchè la Contessa aveva una cavalla bianca per trainare il suo bel calessino marroncino sempre lucido come l’oro.
A governare cavalla, calessino, giardino e tutto il resto era “Spranghino” che in realtà si chiamava Ottavio, ma dato che in inverno aggiustava padelle, piatti, ter- rine e ombrelli, si trascinava dietro quel soprannome.
La Contessa era un pò “vivace” e capitava spesso che partisse all’improvviso per i suoi incontri misteriosi. Così Spranghino attaccava la cavalla, metteva sopra la valige e la cappelliera e accompagnava la Contessa alla stazione. Lì passava i bagagli al facchino, poi ascoltava le solite raccomandazioni per l’andamento della casa.
Appena si sentiva il fischio del treno in arrivo la Contessa allungava, nelle mani piene di calli di Spranghino, la mancia. Lui buttava l’occhio senza farsi vedere, toglieva il berretto dalla testa e diceva: “Buon viaggio Signora Contessa, buon viaggio fino a Bologna”.
E la Contessa partiva contenta.
Un bel giorno, dopo la solita noiosa ripeti- zione, Spranghino saluta la Contessa così: “Buon viaggio Signora Contessa, buon viaggio fino a Forlì”.
Al chè la Contessa, risentita, domanda spiegazioni e il brav’uomo risponde:
“Signora Contessa, di solito mi date dieci soldi di mancia per andare a Bologna… oggi mi avete dato cinque soldi… fino a Forlì basta e avanza”. Poi si è sistemato il berretto in testa e dopo una giravolta sui tacchi è tornato a casa.
Fulvio Conti, detto “Scucèra” è un pezzo di storia Riccione, quella legata allo sviluppo del nostro arenile negli anni ’30, con i ragazzini che vendevano le cartoline ai “signori”.
Con la sua cassettina appesa al collo per anni ha venduto cartoline in spiaggia a migliaia di turisti. Fulvio Conti soprannominato “Scucèra”, noto a Riccione per essere stato uno dei primi venditori ambulanti di cartoline e noleggiatore di auto e Vespe, .
SCUCÈRA E LE CARTOLINE IN SPIAGGIA
La sua fama è stata sempre legata all’attività svolta in spiaggia, soprattutto negli anni Trenta, quando il Duce, come tanti facoltosi gerarchi e signori dell’alta e media borghesia trascorreva le vacanze a Riccione con la sua famiglia. Assieme al fratello Gastone, come venditore ambulante, faceva la spola da un capo all’altro dell’arenile, già a otto anni. Ai turisti vendeva quelle cartoline di Riccione in bianco e nero che hanno fatto il giro del mondo.
E’ emblematica, a proposito, la foto del 3 luglio 1935 che lo ritrae in spiaggia con la sua cassettina appesa al collo, calzoncini corti e cappellino bianco. Erano gli albori di quel grande turismo, esploso nel periodo postbellico.
TRE ANNI DI PRIGIONIA IN GERMANIA
Come raccontano i figli “scoppiò poi la seconda Guerra mondiale e Fulvio fu reclutato in Marina. Lo attendeva un amaro destino: tre anni di prigionia in Germania, durante i quali fu costretto a lavorare nelle miniere di carbone. Tornò a Riccione debilitato, ma con la voglia di rimettersi subito in carreggiata.
L’ESPERIENZA DI MECCANICO
Forte dell’esperienza fatta nei periodi invernali nell’officina di Bidola, in Paese, cominciò a lavorare al garage Diana di Fino Mancini, in Viale Milano e poi dagli Antonelli. Finché negli anni ‘50/’60 con il socio Aldo Manaresi si mise a noleggiare auto, moto e Vespe, acquistate a Milano, provvedevano anche alle riparazioni”. Conti si è anche occupato di commercio. Per il negozio della moglie, Bazar dello sport, poi in mano a Mirko, comprava le borse di paglia ad Argenta e a Treviso, per poi decorarle e confezionarle. Era pure il rifornitore di articoli sportivi, tra i clienti i maestri Piero Serafini, Doge Galavotti e Palmieri.
Fulvio ci ha lasciati 17 luglio 2013 aveva compiuto 92 anni il 22 maggio e, se non fosse stato per l’anagrafe che lo tradiva, nessuno gli avrebbe dato più di 70 anni. Aveva un’impressionante lucidità mentale, guidava ancora l’auto e coltivava ancora la sua passione per i motori.
Squadra di calcio della “Piada d’Oro” partecipante ai mitici tornei dei bari di fine anni ’60. Da sinistra: Ottavio Fedeli, Pino Santini, Raul Poletto, Alfonso Giannini, Pasquinelli, Enrico Pasini, Remo Bartolucci, Agostino Zaghini (cap.). In basso “Papero” Morolli, Gianni Milani, Benedetti, Germano Meletti, X, X, (due rinforzi milanesi) e Jader Galli.
Bocciofila Riccionese un storia lunga oltre 50 anni. Dalle prime partite alla vecchia chesa di Riccione Paese fino all’attuale Bocciodromo: una passione sempre in crescita, partita con la nascita ufficiale della bocciofila nel 1974.
I PRIMI CAMPI DELLA BOCCIOFILA A RICCIONE
Bocciofila Riccionese un storia che parte da lontano con un nucleo di appassionati che ha fatto crescere il movimento nella città. Ai giocatori immortalati nella foto occorre aggiungere uno dei fratelli Pari, Severini P. e Pellaccia N. per formare il nucleo dei pionieri delle bocce a Riccione. Si parla dei lontani anni ’60 quando nei quattro campi situati nell’attuale piazzale Curiel, per intenderci quello adiacente villa Mussolini, si discutevano interminabili partite all’insegna di un sano divertimento ed alla fine della giornata non si disdegnava di suggellare la partecipazione appassionata di tutti con una bella allegra amichevole bevuta in compagnia.
1974 NASCITA UFFICIALE BOCCIOFILA RICCIONESE
La nascita ufficiale delle botte della bocciofila riccionese risale al 1973 quando tutto il gruppo con l’aggiunta di alcuni giocatori di Cattolica è riuscito ad ottenere dal parroco di Riccione Paese l’utilizzo di uno spazio adiacente alla chiesa di Corso Fratelli Cervi e a costruire con la partecipazione di ognuno di loro 4 campi da gioco.
Ma la passione era tanta ed appena un anno dopo, non paghi della sistemazione del vecchio paese, si decise traslocare di nuovo e questa volta con intenzioni definitive nei pressi dell’attuale sede del bocciodromo (dove ora è sito il pattinaggio) costruendo di nuovo sempre a proprie spese oltre quattro campi di gioco anche una piccola sede sociale, in maniera tale da poter organizzare gare ufficiali.
Risale proprio a quell’anno il 1974 il primo trofeo nazionale “Europhone”, tradizionale gara individuale con la partecipazione di giocatori provenienti da tutte le parti d’Italia che ha luogo nella prima settimana di agosto: una manifestazione di alto livello alla quale hanno partecipato alcuni dei migliori giocatori italiani con un notevole impegno da parte di tutti i soci che poi hanno visto crescere ulteriormente la realtà riccionese con la costruzione dell’attuale bocciodromo.
Riccione e i suoi locali da ballo raccontati da Lopez Luigino Pronti. Dalla zona del mare con Savioli, il Florida, il Vallechiara e tanti altri fino a salire in collina con il Poggio, il Tam Tam e il Panoramica. Nomi e gestioni che si rincorrono nel mondo della notte riccionese.
Lopez, al secolo Luigino Protti, racconta le potenzialità che la nostra città vantava dagli anni ’60 sino alla fine degli anni ’80 rispetto al divertimento, nello specifico danzante. “Ibiza era qui una volta!” racconta con vivacità e convinzione.
“Riccione aveva il monopolio del divertimento, perché da nessuna parte esisteva una concentrazione tale di locali da ballo, e comunque anche quelli di Misano, Cattolica o Rimini erano condotti da riccionesi.
Siamo noi infatti che abbiamo sempre avuto una propensione speciale per organizzare lo svago dei nostri bagnanti, e dirò di più: non solo i gestori si impegnavano in questo senso, ma la comunità intera in estate era devota al turista, che cercava di coccolare in tutti i modi. E non solo per un’insita cortesia e cordialità ovviamente, ma anche perché rappresentava questi una ricchezza, per le categorie economiche che prima di tutte si prestavano a tale ‘missione’ (albergatori, bagnini, negozianti), ma in generale per tutti coloro che indirettamente ne traevano i relativi vantaggi.
LA GEOGRAFIA DEI LOCALI DA BALLO
Eccoli, non elencati per data ma per collocazione, partendo dalla zona sud e verso nord: “La Baita” di Tirincanti poi ”Bollicine”, che si trovava in zona Terme; il ”Mistrà”, poi ”Tre Fontane”, allestito dentro il giardino delle Terme; il ”Cocorito” di Rabboni, posizionato in via Trento; “Il Gabbione”, dove poi abbiamo visto il supermercato Abissinia; il ”Papillon”, in un gradevole spazio interrato sul viale Gramsci; il ”Florida” di Barilari Bisio, un dancing mitico dove si sono esibiti nomi prestigiosi.
Il ”Vallechiara” che si chiamava prima ”Paradiso”, nome cambiato su insistenza del parroco perché considerato un po’ blasfemo; (era di Spadini e Bezzi “Bafiti”). Assieme al ”Savioli” e al ”Florida” un’icona del settore. ”La Stiva” sotto l’Hotel De la Ville, un posto più piccolo e appartato; ”Milan de Not” nel palazzo dove ora c’è il Canasta sul viale Ceccarini e collocato sul terrazzo all’ultimo piano; il ”Rendevue” poi ”Carillon”, sempre sul Ceccarini dove poi arrivò l’Emporio Armani, sempre su un terrazzo, e dove sotto c’era una delle prime sale giochi assieme a quella del Zanarini; il ”Cincillà”, un locale in viale Ceccarini dove ora c’è la boutique Ferretti; il “Colosseum” diventato poi il “Bonnie e Clyde” a Villa Mussolini coi “factotum” Jimmy e Adriano Colombo, sotto il condominio a fianco Villa Mussolini.
Il “Park”, dove ora c’è il parco delle Magnolie sempre aperto da Bezzi e diventato preso il quartier generale del gruppo “I Ribelli” di Adriano Celentano; “La Stalla”, gestita da Paolo Bacilieri e che si trovava dietro all’Hotel Mediterraneo: è il primo night della Riviera Adriatica con tanto di vedette dello Striptease.
Il ”Cavalluccio Marino” di Tonino Tosi (Martloun) sul porto, sulla cui terrazza si ballava con l’orchestra; la ”Bat Caverna”, sotto l’Hotel Nautico, un antro oscuro e psichedelico che rappresentò una vera novità. Il ”Savioli” di Bepi Savioli sulla via Dante che diventava una volta all’anno il regno degli artisti di musica e cinema, col Gran Premio dello Spettacolo; la ”Spaten”, birreria ‘ballerina’ negli ultimi anni gestita da Biagini e Fabbri; il ”New Jimmy’s” a metà via Dante, classica disco dance metà anni ’70; il ”Rio Rita”, nel giardino di villa Laura, un’ampissima area verde all’Alba; “Il Calderone”, dove poi venne aperto il Pepe Nero, di Fausto Brioli, una balera nostrana al ritmo di walzer e birra; “Bar Messico” di Luciano Corazza, con una terrazza frequentatissima anche dai residenti ‘a caccia’ di straniere; “La Punta dell’Est”, poi “Snoopy’s”, sopra il ristorante omonimo e punto di ritrovo importante anche in inverno; il “Sirenella” nella zona Marano che, anche se un po’ in periferia, ospitava leggendarie star della musica; il “Piper”, sempre zona Marano ma più all’interno verso Spontricciolo: un tendone da circo che in estate diventata la sede del mitico “Piper di Roma”, portandosi dietro Patty Pravo, i Rokes…
I LOCALI IN COLLINA
Spostandoci verso l’entroterra: il “Boschetto” di Casali in via Veneto dove ora c’è il supermercato; il “Tam Tam” a Colle dei Pini, nell’area dove poi è sorta la villa di Bigucci e Fabbri; il “Pariolino”, trasformato poi in Pascià, che aprì grazie a Vannucci; “Il Poggio” di Spadini, diventato poi “Cocoricò” dopo essere stato anche “Fragolaccia” e “Club 99”; “Villa Alta” di Savioli, in seguito “Peter Pan”; il “Panoramica”, sempre di Savioli e di fronte a Villa Alta.
“Riccione era un palcoscenico nazionale sul quale importanti stelle dello spettacolo davano sfoggio di sé, e per gli emergenti poteva diventarne il trampolino di lancio. Questo per dire che non dobbiamo poi lamentarci se i turisti sono sempre meno – riassume Lopez- perché rappresentando Riccione, una località conosciuta per il divertimento, di divertimento ne offre ora molto meno, specialmente per la fascia di pubblico un po’ più matura.
” Tanti gli aneddoti che non finirebbe mai di raccontare, uno per tutti: “Quando i riccionesi andavano in locali come il Savioli, se erano benestanti non c’era problema. Si sedevano, consumavano e facevano ciò che volevano; se invece erano un po’ squattrinati ma comunque di bella presenza, erano obbligati ad aprire le danze con le belle signore non accompagnate… e al secondo giro dovevano far ballare anche quelle meno interessanti. Il ‘prezzo’per poter starsene seduti in un locale di grido e magari conquistare qualche cuore… e non certo per bere. Il direttore del locale, infatti, per dare una buona impressione alle turiste e per stimolare gli altri a farlo, ai nostri ‘gigolò’ metteva costose bottiglie di vino sul tavolo… peccato fossero vuote!”.
L’annoso problema dell’agibilità del porto viene affrontato per la prima volta con l’investimento per una draga ed un’imbarcazione per il trasporto in mare dei materiali dragati. Il racconto di Dante Tosi ci illustra come i riccionesi a Venezia scelsero i mezzi.
DANTE TOSI, MICHELE BUSILACCHI E GINO ARCANGELI A VENEZIA
Si partì col treno per Venezia in missione esplorativa per conto del Comune, alla ricerca di una piccola draga effossoria per l’escavazione in economia del nostro porto.
Eravamo: Michele Busilacchi, comandante di draghe statali, Gino Arcangeli, responsabile del porto e del mercato ittico ed io, per conto dei pescatori.
Partivamo sulla traccia di un avviso di vendita pubblicato da un bollettino di macchine industriali usate. Arrivammo a Venezia e a piedi ci incamminammo per le Zattere per incontrare il signor Calzavara, titolare di una provveditoria di bordo per bastimenti, il quale ci fece vedere alcune fotografie di una piccola draga a catenaria; poi ci portò, con un “topo”, all’isola sede del Cimitero della Città. Da una porticina andammo a vederla al lavoro di riporto per rincalzare le mura di cinta esterna del luogo sacro.
I TEST PRIMA DELL’ACQUISTO
Era piccola che anche per l’effetto acqua sembrava ancora più minuta, ma aveva tutto di una normale draga (compiuta, come una nana). Tutto il pomeriggio lo impiegammo a girare, sempre a bordo dello sgusciante “topo”, per i canali a visitare depositi e cantieri alla ricerca di una bettolina per il trasporto in mare dei materiali dragati. Trovammo una vecchia “maona”, cioè una chiatta che era servita per il trasporto di munizioni, ancora ai tempi della prima guerra mondiale. A prima vista ci “riempì l’occhio”, ci piacque, sembrò adatta anche se sembrava un relitto rugginoso.
Forti dell’idea che per sapere s’é maschio o femmina bisogna guardarci sotto la coda, andammo, al massimo dei giri del piccolo fuoribordo, dritti alla Giudecca, al cantiere navale Tagliapietra per sentire se poteva essere trasformata in una bettolina portafango con il fondo apribile. Detto fatto, mandarono a prendere la “maona” e tosto la tirarono sullo scalo; i calafati la guardarono per bene, la picchiettarono per saggiare la ruggine, la tastarono battendola con le nocchie (come si fa coi cocomeri per sapere se sono maturi), ne seguì un conciliabolo tecnico che sentenziò che si poteva fare. Soddisfatti riprendemmo il treno per Riccione.
L’ARRIVO DELLA DRAGA
Il Comune perfezionò i contratti d’acquisto e di trasformazione. Dopo molte lune di impaziente attesa fu preannunciato il loro arrivo, via mare. Sul molo si era tutti a scrutare il mare, che maestoso era piatto e senza vento; a un tratto si sente la voce di un vecchio marinaio che dice: “l’è lor”, sono loro. Per la verità noi terricoli, non dotati della sua acutezza, non vedevamo nulla.
Poi, pian piano si materializzarono -a tramontana- tre puntini che via via prendevano forma: un piccolo corteo con la draga, la bettolina e il battello che le trainava… quasi una marcia trionfale.
E la rudezza dei pescatori si sciolse in un accenno di applauso.
Il conte Giovanni Mattioli fece costruire a Riccione nel 1912, al centro di un vasto possedimento agricolo, quello che venne chiamato poi comunemente “Castello Mattioli”.
In località Fogliano (Alba) a monte della ferrovia, sul rilevato naturale del terreno (le cosiddette “greppe” cioè l’antica falesia che segnava la riva del mare, nel 1912 fu edificato il palazzo Mattioli che venne comunemente chiamato “Castello” per via della torre e dei merli che l’ornavano. Il palazzo era al centro di una campagna agricola di 453 tornature riminesi (pari a 2948 metri quadri) di terreno pianeggiante coltivato.
Quando il conte Giovanni Mattioli fece costruire questa residenza di campagna questa spaziava per tutta la campagna intorno giù fino al mare come una sentinella sulla sua “possedimento”. Considerata la vastità del terreno di sua proprietà posta tra il mare la ferrovia Mattioli rappresentò un fattore di sviluppo ordinato dell’abitato di Fogliano mare.
Nel vasto parco, tra il verde degli abeti, dei cipressi, tra i cespugli del lauro odoroso sorgeva la cappella di famiglia, che durante il mese di maggio veniva aperta alla popolazione di marina per la preghiera serale del mese Mariano.
All’interno della tenuta del Conte Mattioli si trovava anche la casa della “Micia” oggi sede di Famija Arciunesa.
*Tratto da “Riccione, una rotta nel vento” di Dante Tosi