Francesco Gabellini nato e cresciuto in riviera, a Riccione. Poeta, drammaturgo o “artigiano della parola”?
“Ci ho messo tanto per accettare di essere chiamato poeta. Con il teatro hanno aggiunto “drammaturgo” ma è materia molto complessa ed articolata. Artigiano della parola mi calza, amo l’artigianato, quello di una volta fatto con cura ed amore. Credo ci voglia anche dell’umiltà per ascoltare chi, prima di te, ha fatto lo stesso percorso: i maestri.
Nelle poesie in dialetto romagnolo, ad esempio, è difficile prescindere dai grandi maestri, concentrati per lo più in Santarcangelo di Romagna (Tonino Guerra, Gianni Fucci, Nino Pedretti, Raffaello Baldini) che ci sono stati e che bisognerebbe conoscere e studiare per cercare, attraverso la loro strada, di dire qualcosa di nuovo”.
Però quando si parla di Romagna si pensa sempre al divertimentificio non alla poesia, all’arte o all’artigianato. “Sì è vero anche se la Romagna ha diverse facce. La Riviera porta senza dubbio alla distrazione e accostare la figura di poeta a Riccione potrebbe apparire antitetico, eppure credo che la poesia contemporanea ne abbia bisogno, si deve nutrire dell’ossimoro.
Considero un privilegio vivere a Riccione, nel cuore del divertimentificio: ricercare la poesia qua è più difficile ma più attuale. L’entroterra è differente ma anche più semplice per trovare ispirazione”.
La tua nuova raccolta di poesie, “Nivère”, è di recente pubblicazione.
“Sì, sono una cinquantina di poesie dei miei ultimi dieci anni. La penultima pubblicazione risale al 2011. Questo per sottolineare che il lavoro è lungo”.
Perché Nivère? “Mi sembrava un titolo significativo perché sono le nuvole cariche che portano la neve. Nuvole molto belle ma anche inquietanti perché non sai mai quello che accadrà quando arriveranno sopra di te.
La neve, un tempo rappresentava un fascino ma anche problema per i vecchi che raccontano lo “svernare” cioè uscire dall’inverno che non era semplice, incuteva timore. Siamo davanti ad un ossimoro: la bellezza che però non porta solo gioia”.
Perché la bellezza fa anche paura?
“Viviamo in un’epoca in cui la bellezza rappresenta l’effimero, la superficialità che, come un castello di carte ad un soffio di vento, se ne va.
C’è quasi sempre da aspettarsi qualcosa anche di pericoloso, minaccioso dietro alla bellezza perché non sempre rappresenta quella spirituale.
La bellezza, di cui pochi ne sanno godere fino in fondo, risiede per me in un bosco, per esempio…”
Non dev’essere stato semplice esternare questa passione, forse per una forma di pudore? “Ho sempre amato, scritto poesie, letto segretamente, iniziando proprio con la prima copia della rivista intitolata “Poesia” di Crocetti editore. La poesia arriva a me attraverso altre forme d’arte come la fotografia ed il cinema. Fine anni ’80, sono stato , con un mio amico, a fare una scuola di cinema a Roma. Da lì, piano piano, è arrivata la scrittura. Ho scoperto che il dialetto sarebbe stata la mia lingua poetica”.
Il dialetto è l’espressione identitaria di in luogo. Quanto è importante non dimenticare le origini attraverso il dialetto? Faccio dei laboratori a scuola, con dei bimbi legati anche al dialetto. Non mi piace però, come qualcuno ha proposto, insegnare il dialetto a scuola; amo invece mettere in contatto i bambini con i loro nonni, i loro racconti ed esperienza. Da qui passa anche la trasmissione del dialetto. Comunque resta un fatto: nell’entroterra i bimbi hanno ancora naturalmente il dialetto nelle orecchie; questo fenomeno è, lì, più vivo.”
Ritieni che i “grandi” aiutino i propri figli a credere non solo nella scrittura ma nell’Arte in generale? “Da piccolo mi ha giovato passare molto tempo con i miei nonni. Come tutti i miei coetanei avevo i genitori impegnati al lavoro.
In particolare mi ha influenzato il rapporto con mio nonno materno, artigiano falegname prima e poi pasticcere e gran narratore orale. Lui amava Giustiniano Villa , poeta popolare, ciabattino di San Clemente”.
Ogni bimbo ha una sua bellezza e propensione artistica, andrebbe solo accompagnato per esprimere il suo talento. Il tuo immagino sia stato un percorso tortuoso.
Da piccoli siamo tutti artisti, poi accade qualcosa, viene ostacolato il percorso spontaneo verso la creatività. I poeti hanno mantenuto lo spirito del “fanciullino” e si riconoscono con e nei bambini. Gianni Rodari come Mario Lodi, in questo, ci hanno insegnato molto”.
Quanto dolore bisogna provare per scrivere?
“Ho capito che il mio inconscio parla molto in dialetto. Le mie poesie le ho comprese dopo anni, dopo un periodo buio della mia vita. Aver fatto analisi mi ha aiutato molto, solo così ho capito cosa volessi manifestare attraverso la mia scrittura”.
Francesco ti piacerebbe, come in una bottega, vendere le tue poesie, un tot al chilo? “Sarebbe bellissimo, si tornerebbe a capire come la poesia e la scrittura siano un bene primario”.
Roberta Pontrandolfo