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Gino Moro, il dottore dei riccionesi, per 30 anni primario chirurgo al Ceccarini

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Il dott. Gino Moro a Riccione ha incrociato il destino di tanti riccionesi per i 30 anni di attività all’Ospedale Ceccarini come primario chirurgo. Tante le vite salvate e la riconoscenza, a lui intitolata la rotatoria dell’Ospedale Ceccarini.

Gino Moro nasce a Palmanova del Friuli il 5 settembre 1892 da Luigi, Colonnello medico, e Ida Lazzaroni. Frequenta le scuole elementari di piazza Galilei a Bologna, il Liceo classico al Collegio Militare di Roma, la Facoltà di medicina a Bologna. Nel 1916-17, durante la Grande Guerra, frequenta il Corso di medicina per studenti militari all’Università di Padova; ne esce con il grado di tenente medico.

Viene inviato al fronte (Caporetto, Lavarone, Gradisca). Con l’intenso lavoro negli ospedali da campo si manifesta – per manualità, preparazione e intuito – il suo notevole talento di chirurgo. E’ tenente medico fino al 1919, quindi è all’Ospedale civile di Forlì, dove era primario il prof. Solieri, che, anni dopo, dovendo farsi operare, si recherà a Riccione dal suo ex aiuto.

Il dott. Gino Moro mentre opera.

Il 28 dicembre 1924 vince il concorso come primario chirurgo del Civico Ospedale di Bertinoro. Nel 1933 passa all’ospedale di Riccione, dove rimarrà come primario chirurgo per 30 anni, rinunciando anche a offerte molto remunerative come direttore di cliniche private.

 

Nel 1934 acquista la villa di via Tasso. Nel 1936 sposa Rina Amaducci, da cui avrà due figlie: Maria Teresa e Anna Maria.

Ama intensamente il suo lavoro: studia sempre, frequenta convegni in Italia, Francia, Germania, Ungheria, assistendo direttamente a interventi chirurgici. Si dedica al lavoro con grande impegno e ne è ricambiato con numerosissimi attestati di ringraziamento: sui giornali, con manifesti, e lettere. In possesso delle figlie ne sono rimaste una sessantina, provenienti in genere dal Nord Italia e anche dall’estero: tutte mettono in evidenza le grandi capacità scientifiche e manuali, oltreché la sua dedizione e umanità verso i pazienti. Sono citati interventi di grande complessità che altri chirurghi non si erano sentiti di affrontare.

 

LA GRATITUDINE DEI RICCIONESI

RINO GAMBUTI NATO GRAZIE AL DOTT. MORO

Salvatore “Rino” Gambuti, bagnino della zona 104. “Sono nato il 4 settembre del 1944. Quel giorno c’erano bombardamenti alleati in corso, l’ospedale era in mezzo alla macerie. Il dott. Moro dopo avermi fatto nascere in quelle condizioni chiese ai miei genitori di chiamami Salvatore, poiché quel giorno non c’erano stati morti, e la mia nascita era un segno di speranza nel futuro. Così il nome che porto è stato scelto dal dottor Moro, che mi ha fatto nascere sotto le bombe.”

RENZO MANARESI SALVATO A DUE ANNI DAL DOTTOR MORO

“All’età di due anni arrivai in Ospedale ferito alla testa e con un grande ematoma, riuscii a sopravvivere perché il dottor Moro, senza radiografie e alla luce delle candele, intervenne con un trapano a mano. A distanza di anni il dott. Moro, ma i abbastanza compianto e ricordato, ancora mi diceva che avrei dovuto accendere alla madonna non incero ma “un lampadario di Murano con duecento lampadine” perché il mio caso fu rarissimo per condizioni e risultato.

IL RICORDO DEL DOTTOR OLIVIERI

Dott. Giovanni Olivieri “A quei tempi l’Ospedale di Riccione era un semplice ospedale di zona, con due sole divisioni, chirurgia e medicina. Il dott. Moro aveva la fama di essere severo con i suoi collaboratori e con il personale, ma era solo rigore verso il suo lavoro e verso la cura dei pazienti, al cui fondo stava però una grande umanità e una straordinaria dedizione alla professione di medico.”

Riccione luglio 2013 – Cerimonia di intitolazione della nuova rotonda antistante l’Ospedale Ceccarini di Riccione al dott. Gino Moro, primario chirurgo dello stesso ospedale Ceccarini dal 1933 al 1963.

 

IL RICORDO Di AUGUSTO BACCHIANI GENERO DEL DOTT. MORO

Fin da bambino conoscevo il dott. Moro. Mi faceva soggezione, mi sembrava burbero, autoritario, forse misantropo. Mi piaceva molto, invece, la moglie. Una signora dalle belle maniere, aperta, gentile, mi trattava come un adulto; purtroppo morì prematuramente, quando le figlie Anna e Maria Teresa erano ancora molto giovani.

Sposata la figlia Maria Teresa, vissi con lui l’ultimo periodo della sua vita, quindi ebbi modo di approfondirne la conoscenza. Era menomato fisicamente per una paralisi che lo aveva colpito nel 1965, ma non era affatto regredito mentalmente.

Era, sì, di poche parole, autoritario non lo era più, ma le figlie dicono che in casa non lo era mai stato. Molto semplice, direi francescano nelle sue esigenze di vita; colto: gli piacevano le citazioni in latino, ma senza farne sfoggio. Era interessato ai fatti e alle persone; provocato (spesso) dall’altro genero, Maurizio Benelli, faceva brevi commenti con tono ironico ma profondamente benevolo; non l’ho mai sentito parlare male di nessuno.

Si diceva di lui che fosse tirchio, ed era vero. Ma non per accumulare i soldi, semplicemente non aveva il senso del valore commerciale delle cose quindi prudenzialmente cercava di non spendere. Lo sapeva e ci rideva sopra. Gli tornavano sempre indietro dei soldi per tasse pagate in eccesso e allora chiamava un giovane dottore, Pietro Pasini, perché lo aiutasse nella denuncia dei redditi; il futuro professore primario prima si scherniva e poi acconsentiva ad aiutarlo.

Oggi penso che la villa che acquistò a Riccione nel 1934 la comprò all’asta perché, sapendo che il valore veniva determinato attraverso una perizia tecnica, aveva qualche garanzia di pagare un prezzo equo; mi viene però da escludere che abbia giocato al rialzo in caso di gara. Ma facciamo un passo indietro. Suo padre Luigi Moro, di Lodi, veterinario della Regia Cavalleria, aveva sposato una friulana, Ida Lazzaroni, di famiglia aristocratica e ancora con dei possedimenti terrieri.

Terminati gli studi di medicina aveva appena intrapreso la carriera universitaria, quando un tracollo familiare lo obbliga a cercarsi un lavoro che gli assicurasse un reddito sufficiente a se stesso. Il dott. Moro abbandona l’università – non avrà mai più a che fare col mondo accademico, anche se sarà, impropriamente, chiamato “professore” -.

GLI INIZI A RICCIONE E LE CORSE IN TOPOLINO PER LE URGENZE 

Trova lavoro presso l’Ospedale di Riccione. Dove conosce la moglie Rina Amaducci, figlia di un noto studioso e letterato che ebbe Augusto Campana fra i suoi allievi. La casa dei nonni a Bertinoro, una volta formata la famiglia a Riccione, rimane il luogo d’incontro per tutte le feste e ricorrenze. Ma per il dott. Moro non c’è pace. Ogni volta veniva cercato per telefono e con la sua Topolino ripartiva per Riccione. Dice mia moglie: “non ricordo che abbia trascorso per intero con noi a Bertinoro una sola festa”

LA STIMA DEI RICCIONESI

Ma chi fosse il dott. Moro per la città di Riccione me ne accorsi dopo il matrimonio. Una volta, ero all’inizio della mia professione di architetto, sono accolto nel laboratorio di un marmista con grande deferenza e ossequio; avrei dovuto capire che c’era qualcosa di strano in quei modi inusuali da noi, invece io ne sono lusingato, penso che presso gli artigiani si sia sparsa la voce circa le mie capacità professionali. Alla fine, dopo esserci incontrati più volte per la realizzazione di un lavoro, il marmista mi rivela il suo grande senso di gratitudine verso mio suocero per avergli salvato la vita con un difficilissimo intervento al cervello.

Un’altra persona mi racconta come incontrando in treno un medico di Bologna, avendo disturbi gastro intestinali, gli chiede se e come possa essere visitato al Sant’Orsola; quando però fa sapere di essere di Riccione il medico gli risponde: “A Riccione avete Moro, che è un luminare in materia, e tu vuoi venire a Bologna?”.

DURANTE IL FRONTE IL DOTT. MORO VIVE AL CECCARINI

E altre storie, fino a quelle di cui ho voluto verificare l’autenticità, perché si rasentava il mito. Durante il passaggio del fronte, che si era attestato a Riccione sul rio Melo, il Dott. Moro porta la famiglia a Bertinoro e si stabilisce a vivere in ospedale: la sua casa, al di là del Melo non è raggiungibile (una volta ci prova, ma viene catturato dai tedeschi e passa un brutto momento – lo raccontava ridacchiando -). Si diceva che il Dott. Moro operasse anche sotto i bombardamenti e le granate e che non abbia interrotto un intervento nemmeno di fronte al crollo di una parete della sala operatoria. Il dottore rispondeva che era una sciocchezza – doveva averla già sentita – la stessa polvere provocata dalla caduta di una parete non avrebbe consentito di operare. Così come negava fosse vero che un personaggio, di cui si diceva che avesse partecipato ad un noto fatto di sangue, avesse raccontato l’episodio sotto l’effetto dell’anestesia – allora si usava l’etere -.

“CHE SUO AMABILIA PREPARI LA SALA OPERATORIA”

La sua dedizione all’Ospedale era totale, veniva chiamato a tutte le ore; mia moglie ha ancora nelle orecchie (dopo più di trent’anni) la voce di suo padre che, chiamato di notte, risponde al telefono, nel corridoio di casa: “Chiamate la Bravetti!” (l’ostetrica) e immancabilmente: “che Suor Amabilia prepari la sala operatoria!”.

L’ULTIMA DIAGNOSI

Era bravissimo nelle diagnosi, probabilmente aiutato, oltre che dalle conoscenze mediche, da un eccezionale intuito. Il mio ultimo ricordo è proprio legato ad una sua diagnosi, l’estrema. Era il Ferragosto del 1972. Mi ero alzato un po’ tardi quella mattina. Dall’alto della finestra della cucina vedo il dottore seduto in giardino e mi domando: “Ma con una giornata di garbino come questa non stava meglio dentro casa?” Dopo poco si sente male, viene portato nella sua camera. In attesa dell’ambulanza rimango qualche momento solo con lui.

Mi dice: “Augusto, per me è la fine”. Mi sento di ghiaccio. Col chiamarmi per nome evidenziava la sua lucidità. Farfuglio qualche parola per dire di farsi coraggio che si sarebbe ripreso, ma era chiaro che lui capiva la situazione, aveva il tono e l’autorevolezza del grande medico che non sbaglia nemmeno l’ultima diagnosi. Muore dopo neanche due ore, nel suo ospedale. E’ sepolto, vicino ai genitori, nel cimitero vecchio di Riccione; sulla tomba qualcuno, oltre ai familiari, porta ancora dei fiori.

Augusto Bacchiani (genero del dott. Gino Moro)

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