Cari lettori, anche in questo numero troverete tante piccole belle storie di solidarietà, non solo di Famija Arciunesa.
E’ giusto farlo? Per me sì. Ma ogni volta mi interrogo se sia corretto darne nota, perché c’è sempre il rischio di essere, nel migliore dei casi, fraintesi o addirittura criticati di fare passerella.
Poi penso a me bambino, quando ho cominciato a sfogliare Famija Arciunesa e di come anche leggendo delle tante iniziative benefiche mi sia fatto un’idea dei riccionesi.
Non è solo una questione di trasparenza e di come queste notizie possano essere da traino, è anche un fatto di consapevolezza.
Crescendo ho capito come la nostra indole, per il forte legame con la città, sia spesso fortemente critica sulle vicende “domestiche” ma anche come la nostra comunità sappia poi ritrovarsi in “famija” quando serve. Oltre al tratto passionario che ci caratterizza, da almeno dieci anni anche i social stanno condizionando le nostre relazioni, quasi fossero dei confronti all’interno di un’arena.
Mi verrebbe da dire che le cose belle sembrano infastidire, sparigliano il mazzo, sorprendono. Costringono le persone a mettere in moto la parte empatica: un due più due che secca la gola di chi vorrebbe al contrario inveire, accusare, offendere.
Facciamole, allora, le cose belle e raccontiamole in tutta la loro disarmante semplicità. Superiamo la rabbia, lasciamola proprio perdere.
E in tutto questo riprendiamoci l’uso corretto della parola.
Oggi abbiamo perso la responsabilità nell’usare le parole, lo vedo e lo sento nella vita di tutti i giorni: in televisione, nella musica, nello sport, nella politica… Sono veramente in pochi a sentire il peso di questa responsabilità.
Oggi è tutto velocemente consumabile e perde di significato, noi, le nostre azioni, i gesti, le scelte e anche le nostre parole. Le parole possono ferire in modo profondo, stupido chi dice che non sia vero.
E magari in questa “sfida” non prendiamoci troppo sul serio, indossando quella leggerezza, non superficialità, che ci possa far guardare le cose dandogli il giusto peso.
Era un modo di essere che i nostri vecchi ci hanno testimoniato con il loro quotidiano, attraverso il loro modo di relazionarsi, senza far necessariamente coincidere le persone con le loro opinioni.
Ricordo bene quando qualche tensione, per punti di vista contrapposti, si poteva risolvere con un liberatorio e dissacrante “Va te casèin”, detto con un sorriso per stemperare e per poi bere un caffè insieme. Certo, questo non basta ma è un buon punto di partenza.
In passato, è vero, c’erano condizioni socio-economiche più favorevoli ma il non prendersi troppo sul serio per andare avanti, l’alleggerire per crescere e favorire un clima positivo, innovativo e non appesantito dal timore del giudizio, sono stati sempre un nostro tratto distintivo, quello che faceva accadere le cose qui prima che altrove.
Che passi anche da qui la ricetta del rilancio di Riccione?
In fondo, chi viene qua da oltre cent’anni forse non ci sceglie
solo per il mare e la buona cucina…
Francesco Cesarini
Presidente Famija Arciunesa