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Quando il Primo Maggio si andava all’Ingar a far festa!

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“Abissinia” il libro di Luca Villa in pubblicazione. Un’iniziativa di Famija Arciunesa per valorizzare la nostra storia e le nostre radici.

Famija Arciunesa ha messo in cantiere la pubblicazione dei racconti di Luca Villa nel libro “Abissinia”. una scatola di cioccolatini da scartare uno alla volta, un flusso di ricordi, emozioni e storie capaci di andare oltre i confini di un quartiere per diventare l’affresco di un periodo, di una Riccione del passato ma anche di un momento storico del nostro Paese. Sono gli anni ’70: quelli dello sviluppo economico, delle tensioni sociali ma anche quelli dei primi ’80, quelli della leggerezza, delle amicizie nei luoghi di villeggiatura.

Luca Villa con i suoi brevi racconti ci prende per mano in un percorso piacevole fatto di ironia e profondità, un viaggio che Famija Arciunesa ha deciso di condividere con i suoi lettori con questa anticipazione dedicata all’ingar (oggi i campi dell’Asar, dove una volta correvano anche i cavalli e giocavano già a calcio) e alle feste del Primo Maggio di quel periodo. in Autunno l’uscita del libro e la presentazione con l’autore, da anni per lavoro ad ibiza ma con il cuore sempre nella sua Riccione.

Primo Maggio all’Ingar di Luca Villa

La folla di riccionesi che accorrevano il 1 Maggio all’Ingar (oggi i campi dell’Asar). (Archivio Foto Riccione – Pico)

Il primo maggio si andava all’Ingar a far festa. Io ci andavo con mio nonno Tiglio (che in verità si chiamasse Attilio l’ho saputo quando è morto e ho visto i manifesti: “Guarda mamma, c’è uno che si chiama come il nonno ma con il nome diverso…”) così mi vestivo bene e passavo a casa sua abbastanza presto, ben sapendo di trovarlo già sulla porta, con il vestito della festa, la camicia bianca e il fazzoletto rosso al collo, che pestava i piedi come un bam- bino a Natale e sbuffava con mia nonna: “Sò Gina, smitì da pulì la chesa e andàm clè terd”. (Sù Gina, smettete di pulire la casa e andiamo che è tardi). I miei nonni si davano del voi fra di loro, passavano al tu solo quando c’era da discutere, ma le poche discussioni finivano sempre con la vittoria di mia nonna e con mio nonno che se ne andava a testa bassa borbottando qualche “camigàna” (imprecazione dialettale) a bassa voce.

Finalmente si riusciva a partire, e quando si arrivava alla festa era tutto un tripudio di bandiere rosse, di profumi di cibo buono e di tavolate di gente allegra. E poi gli altoparlanti che mandavano a tutto volume canzoni che non conoscevo, con mio nonno che appena partiva “Bandiera Rossa” faceva la lacrima. Andava a comprare uno scartoccio di fava, un po’ di lumachini e garagoli, pane e vino e ci sedevamo a una delle tavolate di legno vicino alle altre persone che già stavano mangiando, e si andava avanti così per tutto il giorno, a mangiare e bere e cantare, e salutando amici che andavano e venivano con grandi sorrisi e pacche sulle spalle, finchè il sole non cominciava ad abbassarsi, e allora si tornava a casa, stanchi ma felici di avere passato una giornata meravigliosa.

Mio nonno mi teneva per mano fino a casa, e ricordo che una volta gli chiesi: “Nonno, perché hai il fazzoletto rosso al collo?”. “Perché a sò un comunèsta.” (Perché sono un comunista) “E cosa sono i comunisti?” “Quei c’là salvè l’Italia.” (Quelli che hanno salvato l’Italia) “Salvata da cosa?” “Da i tedèsch e da i prìt.” (Dai tedeschi e dai preti). A questo punto immancabilmente interveniva mia nonna che con un perentorio “Lassandè Tiglio, sta zèt cl’è un burdèl” (Lascia stare Attilio, stai zitto che è un bambino) metteva fine al nascente comizio anticlericale di mio nonno, che mi guardava sospirando e borbottando la solita sequenza di camigàna riprendeva la strada verso casa.

Mio nonno non c’è più da molti anni. Nemmeno i comunisti ci sono più da molti anni. Invece i tedeschi e i preti ci sono ancora. Chi la salverà l’Italia stavolta?

Luca Villa

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